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Le recensioni dei vincitori di questa edizione di Scrivere di Cinema

Le recensioni dei vincitori di questa edizione di Scrivere di Cinema

 

Premio Alberto Farassino

   
 

Grazie a trecentosessantagradi ai milleottocento giovani debuttanti critici per aver partecipato con passione all'edizione 2012 di Scrivere di cinema Premio Alberto Farassino. Sabato 22 settembre, all'interno di pordenonelegge.it Festa del libro con gli autori, si sono tenute le premiazioni con la consegna dei premi ai finalisti di ciascuna sezione di gara e dei premi collaterali. E' stata una vera e propria festa dedicata alla critica, con l'intervento, oltre a quello dei giurati del concorso, della produttrice Francesca Cima (Indigo Film). Per richiedere l'attestato di partecipazione basta scrivere a scriveredicinema@cinemazero.it

In attesa del nuovo bando di gara, preannunciando fin da ora che ci saranno delle novità, ecco i nomi di tutti i vincitori e le recensioni con cui i critici in erba si sono aggiudicati il podio del concorso.VINCITORI SCRIVERE DI CINEMA 2012

 

 

VINCITORE SEZIONE BIENNIO

1° ALEXANDRA TUDOR, Liceo Scientifico-Linguistico "Paolo Giovio" (Como) con la recensione del film The Help di Tate Taylor

2° PETRA BIANCHINI, Liceo Scientifico "Le Filnadiere" (S.Vito al Tagliamento, Pordenone), con la recensione del film Quasi amici di Olivier Nakache

2° GIORGIO CORNELIO, Macerata, con la recensione del film Carnage di Roman Polanski

 

VINCITORI TRIENNIO

1° VALENTINA VENTURI, I.I.S. "Giuseppe Colasanti" (Viterbo) con la recensione del film Tomboy di Céline Sciamma

2° GIORGIO PAPITTO, Liceo Scientifico "Luigi Pletrobono" (Frosinone) con la recensione del film Drive di Nicolas Winding Refn

3° IOANA A. SOPUCH, I.S.I.S. "Girolamo Albertini" (Nola) con la recensione del film The Double di Michael Brandt

4° LORENZO SCARPEL, Liceo Scientifico "Michelangelo Grigoletti" (Pordenone), con la recensione del film "Viaggio nell'isola misteriosa" di Brad Peyton

 

VINCITORI UNDER28

1° GIUSEPPE GROSSI (Bari) con la recensione del film Shame di Steve McQueen

2° LEONARDO GREGORIO (Bari) con la recensione del film Silent Souls di Aleksei Fedorchenko

3° FABRIZIO PAPITTO (Frosinone) con la recensione del film This Must Be The Place di Paolo Sorrentino

4° BARBARA NAZZARI (Bologna) con la recensione del film ..E ora parliamo di Kevin di Lynne Ramsay

 

PREMI COLLATERALI

 

LA SCUOLA VINCITRICE DEL PREMIO "LA CLASSE":

I.S.I.S "G. A. PUJATI", SACILE (PN)

 

LA SCUOLA VINCITRICE DELLA TARGA S.N.C.C.I:

LICEO SCIENTIFICO "LE FILANDIERE", S. VITO AL TAGLIAMENTO (PN)

 

LA SCUOLA VINCITRICE DELLA MENZIONE SPECIALE "PREMIO FEDELTà" PER I 10 ANNI DEL CONCORSO:

I.T.S.T. - "J.F.Kennedy", PORDENONE

 

RECENSIONI

TRIENNIO:

 

1° CLASSIFICATO

TOMBOY

“L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa […] Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma”, scriveva Luigi Pirandello, nel riflettere su come ciascuno non si riconosca nella forma che da altri gli viene data, bensì solo in quella che desidera darsi da sé. E’ un leitmotiv caro al cinema di sempre, quello che Céline Sciamma rispolvera: la ricerca e l’affermazione dell’identità, che in “Tomboy” si traducono in bisogno di spontaneità, desiderio di autenticità, ostinazione a mantenersi fedeli all’idea che si ha di se stessi. Laure, dieci anni, nuova nel quartiere, agli altri bambini si presenta come un maschio, Mikael, complici il taglio di capelli, l’abbigliamento maschile e un corpo acerbo, non ancora sviluppato. Tutto inizia con una domanda (“Come ti chiami?”) e con una risposta (“Mikael. Mi chiamo Mikael”), e questo sapore di semplicità permea tutta la vicenda, che altro non è che il racconto degli sforzi che Laure/Mikael compie, con la naturalezza ingenua di cui solo i bimbi sono capaci, in difesa dell’immagine che ha scelto per sé, in virtù di quella libertà di agire che appartiene a chi non trova ragioni valide per sottrarsi a se stesso. In Mikael, però, c’è anche la matura consapevolezza di dover presto tornare ad essere Laure: assieme all’estate finisce anche il gioco e, scoperta dalla madre, Laure deve rivelare a tutti la sua (non) identità. La Sciamma ci fa strada attraverso un microcosmo, quello dei bambini, che si rivela minuto dopo minuto una miniatura del mondo dei “grandi”. La vicenda fanciullesca di Laure diventa così il simbolo di un esperienza che ogni uomo affronta, presto o tardi: è l’esperienza di reclamare non tanto un altro nome, né un genere diverso, quanto la libertà di esprimere senza limitazioni il proprio essere, che poco ha a che vedere con nomi o generi. Per 80 minuti non vediamo né un maschio né una femmina: solo una persona che lotta per la propria identità – non sessuale, ma di essere umano. E’ una battaglia che ci appare tanto naturale e, chissà, familiare, che un’inevitabile empatia verso la protagonista si fa strada in silenzio nella nostra interiorità, e il film sembra quasi rivolgersi a tanti Mikael, nascosti da qualche parte, dentro di noi. Gioiamo con Laure ai suoi successi, sorridiamo al suo atteggiarsi a maschio di fronte allo specchio (e per un attimo ci facciamo tornare alla mente la Hilary Swank di Boys don’t cry), piangiamo con lei al suo dolore; non c’è minuto del film in cui il nostro tifo non sia diretto a lei. Diventa così una metafora continua, “Tomboy”: l’identità sessuale come metafora dell’identità personale, l’esigenza degli altri bambini di assegnare un sesso a Laure/Mikael come metafora della necessità spasmodica dell’uomo di categorizzare tutto quanto incontra sul proprio cammino, il vestito appeso a un ramo (dopo che la madre di Laure l’ha costretta ad indossarlo) come metafora di canoni già stabiliti da altri, e per questo da lasciarsi alle spalle. Perché “je est un autre”, “io è un altro”, direbbe Rimbaud: un altro, in questo caso, rispetto all’identità che vuole esserci assegnata da chi, spesso nell'illusione di proteggerci (e a volte senza neanche sapere bene da cosa), finisce col ferirci. Con sorprendente eleganza, la pellicola racconta una lotta genuina e spontanea, combattuta in nome di una causa che non può non trovarci d’accordo, e ci fa tornare alla mente le parole di un famoso film di Almodóvar: “una è più autentica, quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di se stessa”.

Valentina Venturi

 

 

2° CLASSIFICATO

DRIVE

Drive è la melanconica catarsi di un uomo taciturno, imperturbabile, che, misterioso, si presenta, perennemente accompagnato dalla delicatissima regia di Nicolas Winding Refn, in tutta la sua maestosa oscurità. Di lui, non si sa nulla; tantomeno il nome (per questo lo chiameremo Driver). Tutto ciò crea un rarefatto alone di mistero attorno alla sua figura scolpita dai muscoli e nascosta sotto uno sguardo gelido e distaccato. La trama (che si basa sull’omonimo libro di James Sallis) è banale, e porta l’attenzione ai quei minuscoli dettagli registici, scenografici, e musicali che arricchiscono il film. Driver è un meccanico e, a detta del suo datore di lavoro, molto abile, forse il più abile; per arrotondare lo stipendio fa lo stuntman, e il pilota per i criminali durante le rapine. A rompere i suoi equilibri, in un incontro casuale in ascensore (luogo abusato nella cinematografia tutta), appare la fragilissima Irene (Carey Mulligan), bionda e dallo sguardo malinconico sensualmente ammaliante. Questa è sposata con il carcerato Standard (Oscar Isaac) dal quale ha avuto un figlio: Benicio (Kaden Leos). Tra Driver e Benicio, durante l’assenza del padre, nasce uno strano legame quasi paterno; e languidi sospiri sussurrati alle labbra di Irene lasciano presagire una storia d’amore.

Allora ecco che Standard, scarcerato per buona condotta, si ripresenta nella vita di Irene, e ha un debito da pagare a costo della propria pelle. A partire da ora l’esistenza di Driver cambierà completamente, vedrà tutto intorno a sé sfumare e scomparire tra la polvere alzata dagli inseguimenti a mano ferma sul volante e le pallottole che lo sfioreranno, macchiandogli l’anima di nera vendicatività. Ma in tutto ciò c’è una via di fuga? Se sì, l’unica via per la salvezza è fare rifornimento e correre. Altrimenti si rischia brutto. Insomma, la classica storia da action-noir anni ’70. Eppure affascina. Sarà per la colonna sonora, permeata del sound agrodolce dell’electropop anni ’80 (tra i vari Cliff Martinez e Kavinsky) per la recitazione distaccata di Gosling, per la pura bellezza della Mulligan, per le spettacolari derapate o per la sfarzosa Los Angeles, che sotto la mano di Refn, si mostra in tutto il suo splendore, cupa e melanconica. A convincere più di tutto però è il personaggio Driver, una sorta X in un sistema sociale schematico e convenzionale. Ha una sua personalità, frigida e apparentemente insensibile, ma che gli permette di trasmettere in infiniti silenzi e sospiri ciò che fumettoni romantici tra mille parole e lacrime forzate distruggono: la fragilità e i sentimenti puri. E anche quando la sua giacca si sporca del sangue nemico… anche in quel momento… tu non riesci che a cogliere lo splendore di Driver e ammirarlo nascosto sotto la giacca con lo scorpione divenuta ormai di culto. Bastano quei pochi sguardi con Irene a farti capire quale poesia sia celata sotto la sua maschera da duro. Drive è una ballata noir, a tratti pulp, dalle tinte oscure, che sicuramente rimarrà intatta nella sua eleganza negli anni a venire. Violenza poeticamente mascherata da una regia superlativa, ritmi dilatati, atmosfere notturne, un fragile protagonista cupo e introverso, con in sottofondo una storia d'amore dilaniata da imprevedibili circostanze. Nicolas Winding Refn dietro la macchina (da presa) e Ryan Gosling dietro al volante hanno creato un film di eterea bellezza e rara umiltà.

 

Giorgio Papitto

 

3° CLASSIFICATODRIVE

THE DOUBLE

La bravura e l’esperienza di Richard Gere e il fascino innocente di Topher Grace in un thriller spionistico dagli esiti imprevedibili e ricco di azione diretto da Michael Brandt, autore di “Wanted” e sceneggiatore di “2 Fast 2 Furious”. Un agente pensionato della CIA richiamato in servizio, un nuovo acquisto della FBI dall’intelligenza strabiliante e con un intuito invidiabile e l’ossessione di entrambi per un famigerato pluriomicida conosciuto come “Cassio” che, dopo anni di inattività, ha colpito nuovamente provocando la morte del senatore statunitense Dennis Dander. Paul Shepherdson si ritrova, così, a dover lavorare insieme al giovane Ben Geary per scovare e mettere al fresco una volta per tutte il tanto spietato quanto misterioso e inafferrabile killer sovietico, tra strane coincidenze, colpi di scena e sentimenti contrastanti . Il desiderio di vendetta, il dolore antico e inconsolabile di un uomo che ha perso moglie e figlio, l’ambizione e la determinazione di un giovane in carriera, identità doppie, riferimenti ai “grandi” della storia romana (Cassio, difatti, fu uno dei cesaricidi più rinomati), complotti internazionali postumi alla Guerra Fredda, controspionaggio e cambio delle carte in tavola sono solo alcuni degli elementi presenti in questa avvincente pellicola in cui niente è dato per scontato e nessuno è ciò che sembra. La storia è strutturata complessivamente in modo discreto, pur con alcuni difetti, come l’imprudente e decisamente controproducente scelta di rivelare l’identità di Cassio qualche decina di minuti appena dall’inizio dell’azione scenica e l’alquanto mediocre dosaggio degli effetti complementari di suspense e di sorpresa. A questo spiacevole squilibrio ha tentato di rimediare il talentuoso compositore John Debney, realizzando una maestosa e suggestiva colonna sonora, rivelatasi indispensabile, tra l’altro, per creare un’atmosfera incalzante, compensare i difetti di recitazione e la scarsa espressività degli attori e coinvolgere emotivamente il pubblico. Le inquadrature sono precise, gli ambienti adeguati seppur ordinari, gli effetti speciali francamente realistici e la scenografia sostanzialmente buona. Malgrado le imperfezioni tecniche e artistiche e le cruenti e continue critiche da parte degli esperti, rimane uno di quei film capaci di trasmettere qualcosa, di coinvolgere fino in fondo, uno di quei film che, terminata la proiezione, lascia dentro l’anima dello spettatore quella sensazione caratteristica e indescrivibile che sa quasi di...malinconia e nostalgia.

IOANA A. SOPUCH

 

UNDER 28

 

1°CLASSIFICATO

SHAME

Sesso e (mal) volentieri. Giornate piene di vuoti riempite da rapporti carnali. Il corpo (proprio o altrui) è nudo senza mai esserlo davvero, perché nasconde un malessere profondo, diventando il terreno di un masochismo mascherato da edonismo. Così vive Brandon, 40 enne erotomane, perennemente a caccia di altri per fuggire da se stesso. Un appartamento livido, un lavoro asettico, un portatile come fedele compagno di (dis)piaceri solitari persi nel virtuale. Uomo in-dipendente, affamato e ingordo, che concepisce ogni sorriso, ogni sguardo, ogni cenno come un lascia passare peccaminoso. Le donne sono una valvola di sfogo malato anche perché loro permettono di esserlo. Persino una sorella fragile che canta di continuo sulle corde della disperazione. Shame affronta con stile crudo e inesorabile l’universo dello scompenso affettivo e dell’istinto sessuale fine a se stesso. E non lo riduce ad un fatto privato, non permette che riguardi solo il suo protagonista disperato, ma lo disperde nell’abitudine sociale, in un mondo che lo giustifica ogni giorno, ovunque, in chiunque. Gli affetti non hanno effetti; i due protagonisti sono legati dal sangue e da un passato arido di cui non ci interessa conoscere le cause, ma di cui sin troppo bene si vedono le conseguenze. La vita senza scopo. L’esistenza come sopravvivenza. Gli altri come s-oggetti utili solo a confermare che si esiste. Andare a letto o tagliarsi le vene. Fa lo stesso. Due modi diversi di farsi del male. Mc Queen, con una regia mai banale, raffinata (fratello e sorella meritano solo riprese alle loro spalle, mai frontali) invadente, ma mai giudicante, rappresenta il sesso come totale dispersione del piacere, trasformandolo in masturbazione dolorosa e vuota. Venire senza mai arrivare da qualche parte. Shame invece, ci riesce benissimo, senza vergogna, mettendo in difficoltà chi guarda. Arriva per forza. In chi si riconosce, in chi si imbarazza, in chi sente il disagio superare lo schermo ed irrompere in modo violento nelle nostre vite, nei nostri letti, spogliati da ogni pregiudizio.

Giuseppe Grossi

 

2°CLASSIFICATO

SILENT SOULS

Una etnia, quella ugro-finnica dei Merja, originaria della zona centro-occidentale della Russia e scomparsa quattro secoli fa, assorbita dagli Slavi. Come raccontarla, allora, se tracce di quella cultura non esistono più? Immaginando, reinventando. Cinema. Dunque "Silent Souls", o della (finta) etnografia trasfigurata in poesia. Un itinerario dello spirito, una «fiaba dell’anima» − come sostiene il regista, il siberiano Aleksei Fedorchenko −, un atipico, malinconico road movie fra le strade del passato e del presente, della vita e della morte. Tra paesaggi e villaggi sperduti della Russia, il viaggio di due uomini, Miron e Aist (anche voce narrante del film), discendenti dei Merja, In trip per dare a Tanya − moglie di Miron ma amata anche dall’altro, e mai completamente avuta da nessuno dei due − l’addio secondo la loro antica tradizione. Prima della partenza, la pulizia del defunto, poi via, in auto, insieme al corpo della donna avvolto in un drappo colorato, fino al sacro luogo, alla cremazione del cadavere e alla dispersione delle sue ceneri nelle acque del Lago Nero. Alla fine, il ritorno verso casa, “interrotto” all’improvviso per intraprendere un altro “viaggio”, diverso, un altro ritorno. E di nuovo l’acqua, fra le anime silenziose. Tra il principio e il termine a inframmezzare, preziosa, i lunghi silenzi dei protagonisti è la Parola, con la sua capacità di sgrovigliare le annodature della civiltà, di farsi, confessione, ricordo, condivisone e, al contempo, rivelazione e necessaria riappropriazione di un mondo e di riti assorbiti dal dispotismo della Modernità. Le parole di Miron e Aist sono senza peso − come gli zigoli, gli Ovsyanki del titolo originale, i due uccellini in gabbia che Aist porta sempre con sé − ma possiedono la forza della Memoria. La fusione di Uomo e Natura − siamo nei paraggi di Tarkovsky − si traduce in un lirismo dolente ma tenero, non disperato, incastonato in una fotografia splendida, fra i bordi dei numerosi piani fissi o che lento scivola fra i movimenti leggeri, quasi impercettibili della macchina da presa. L’andatura è dilatata, in uno spazio d’incontro fra reale e fantastico, nell’unione fra passato e presente in un tempo sospeso. "Silent Souls" è uno di quei rari film che a distanza “riappaiono” allo spettatore, ritornano con le loro immagini, che poi lievemente si sfarinano e si ripresentano con nuovi contorni, tracce diverse, quei film che diventano sempre un altro film, un’altra storia, un’altra immagine. Un altro Cinema.

Leonardo Gregorio

 

3°CLASSIFICATO

THIS MUST BE THE PLACE

Rock star in pensione ma con ancora l’abito di scena – nerovestito, capelli cotonati, make up di cerone bianco e lipstick rosso (un po’ Robert Smith un po’ Edward mani di forbice) – Cheyenne (un irriconoscibile Sean Penn) insieme con la moglie Jane (Frances McDormand), vive la cornice di una routine agitata dall’ossessione per la morte volontaria di due giovani fan, di cui si sente responsabile, e dalla figura di una ragazza che insieme alla madre aspetta il ritorno dell’altro figlio misteriosamente scomparso. Avuta notizia dell’imminente morte del padre, con cui aveva interrotto ogni legame, Cheyenne si risolve a raggiungerlo a New York; qui scopre che l’uomo col quale non parlava da trent’anni ha trascorso l’ultima parte della sua vita dando la caccia all’ufficiale nazista che lo perseguitò ad Auschwitz. Decide così di mettersi anch’egli sulle sue tracce per finire la ricerca che questi aveva iniziato. A dispetto della ricchezza narrativa Paolo Sorrentino firma la sua opera più asciutta. È insieme il primo film di respiro internazionale e quello più personale ed intimo; l’America è luogo di riscatto due volte: terra di redenzione per il protagonista è anche l’occasione, per il regista, di dare angolo al rigido geometrismo che costringeva i precedenti lavori. Simmetrie estetiche e concettuali si mettono ora maggiormente al servizio del racconto, dando spazio a uno sguardo più libero e maturo. Road movie di moto rettilineo uniforme, This must be the place è un film che in orizzontale lentezza si muove con verticale intelligenza, e nel colpo di ping-pong mandato a segno sulla distrazione avversaria trova la cifra di una narrazione che si costruisce in controtempo sulle pause, dove l’ironia assorbe il rinculo della sofferenza. Mentre con il quasi simultaneo Melancholia Lars von Trier parte da un impianto cosmologico per raccontare nell’apocalisse del mondo il cortocircuito dell’uomo (mancando per tre quarti il proprio bersaglio), Sorrentino aderisce invece all’universo del suo protagonista e scava in profondità; ci parla della difficoltà di essere figlio, dell’incapacità a perdonarsi e del senso di colpa, ci racconta una quotidianità svuotata come la vasca dove il protagonista e la moglie giocano alla palla basca, del dramma o dell’inadeguatezza di rapportarsi a un’adolescenza che non è stata accettata perché non è stata superata. E ancora dei fantasmi dell’attesa, dell’olocausto come falso anacronismo, della vendetta come strumento imperfetto di riappropriazione. Scala a colore sul seme della solitudine, il cinema di Sorrentino tratteggia anche con il quinto film la figura di un uomo solo. La moglie, donna dolcissima sospesa tra un creaturale istupidimento e una materna, viscerale consapevolezza, non può accompagnare il marito nel suo viaggio di formazione, perché per lei amarlo significa accettarlo. A fargli compagnia sarà allora la sua valigia trolley, che insieme allo scafandro in cui ha trasformato il suo corpo è il peso specifico che serve a proteggerlo da un vuoto di esistenza (lo stesso per cui ha paura di volare), e dal quale si libererà solo quando, riconosciuto l’amore paterno, si affrancherà dalla condizione di figlio e accetterà insieme sé stesso e l’adulta complessità di quel mondo che lo spaventava. “Questo deve essere il posto”, recita il titolo preso a prestito da un brano dei Talking Heads; e non solo per l’incertezza di un uomo spossessato, spaesato dal dolore, ma anche perché questo “deve” essere il posto: altri, se non questo - qui in questo mondo - non ci sono concessi per trovarci.

Fabrizio Papitto

 
   
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