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Il suo ultimo grido di dolore (Il Caimano) è per un «Paese spezzato», ridotto a un cumulo di «macerie politiche, culturali, istituzionali, costituzionali, etiche e psicologiche», lascito di chi ha provocato lo «sperpero tragico del patrimonio comune di valori sul quale si era fin qui retta la Repubblica». Ma è anche l'urlo malinconico per la fine di un amore di coppia che si credeva eterno. Rabbia dolore malinconia. C'è tutto Nanni Moretti in questo suo ultimo racconto. E c'è il compimento perfetto di quella parabola della sofferenza iniziata trent'anni fa e mai abbandonata. Un dolore sempre contemporaneo e attuale, chiave di lettura per investigare l'opera di un autore che ha costruito la sua arte intorno a un principio semplice e tenacemente perseguito: essere dentro il proprio tempo. Piace proprio questo di Moretti: ha la dote dei grandi cantori di raccontare quello che succede loro intorno, e di farlo miscelando con certosina perizia tutti gli ingredienti indispensabili per il buon esito della narrazione: il sorriso e il pianto, l'ironia e l'austerità, il grottesco e il grave. Il grave. L'angoscia. Il dolore. Moretti è un autore considerato, prima di tutto, molto divertente, ma mai come oggi crediamo sia necessario non dimenticare l'aspetto del dolore. Trent'anni fa Moretti dava voce e corpo ai sintomi di un dolore generazionale ancora in potenza e in procinto di implodere, di chi vive la fine di un epoca totalizzante (gli anni Settanta, con tutto il loro carico invasivo di miti) e si appresta a sostituirla con tempi sfuggevoli e per nulla rassicuranti. Nasceva la poetica dei bombi: grottesca, a tratti esilarante, disperatamente malinconica. Prendeva corpo il dolore di Michele Apicella, muto dinanzi alla sofferenza altrui. E si plasmava pochi anni dopo, quando la pena generazionale lasciava spazio al racconto del dolore di uomo tra gli uomini, di chi cerca invano nell'amore per l'altra e per gli altri una consolazione, un significato da dare alla propria presenza nel mondo. Ricerca destinata alla sconfitta, e quindi fonte di malessere e sofferenza. Erano i pugni rabbiosi di don Giulio, che infrangevano vetri e tagliavano la carne. Era la follia omicida del mite professor Michele, che fuggiva l'amore imperfetto e puniva chi minava l'impeccabilità del quadrato magico. Era il dolore che diventava rabbia. Moretti rinnovava la sfida raccontando la frantumazione di un’identità politica totalizzante, quella comunista, e la ricerca disperata di un valido surrogato. Raccontava il dolore politico (La Cosa), le crisi ideologiche, restando però questa volta fortemente ancorato al vero, entrando nelle sezioni di Partito con la cinepresa per immortalare su 16 mm le interminabili riunioni dei militanti, i torrenti di parole organizzate alla ricerca frenetica di una risposta a interrogativi angoscianti. E quelle carrellate di facce e volti, quei flussi di coscienza politica in bilico tra confusione e disperazione venivano paragonati alla grande tradizione del giornalismo d'inchiesta. Ha poi descritto l'Italia all'epoca di anni importanti, quelli della metà dei Novanta, quando tutto sembrava dovesse cambiare per poi rimanere invece uguale a sempre, anche se con attori e interpreti (in parte) diversi. E dopo aver reso partecipe il pubblico di un evento lieto con la nascita di un figlio (Aprile) ne ha messo in scena la morte improvvisa, irreparabile, devastatrice. Arrivando a esporre sé stesso come mai prima era accaduto, in una resa dei conti risolta con una passeggiata sulla spiaggia al termine della quale niente sarebbe stato più uguale a prima. Ha così messo in scena il dolore puro e assoluto, privato e condiviso (La stanza del figlio). Il rumore dei chiodi che sigillano la bara scandisce i tempi e modi di un dolore che s'infila dappertutto, tanto più lacerante perché apparentemente incomprensibile, vuoto di senso, giunto improvviso a privare l'uomo di un pezzo della propria vita, senza lasciare nient'altro in cambio se non una voragine distruttiva.
di Giuliano Boraso |