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Con Jonathan Zaccaï, Popeck, Abraham Leber, Irène Herz, Nassim Ben Abdeloumen, Marta Domingo, Ivan Fox, David Bass, Nassim Ben Abdelmoumen, Lise De Henau, Jean Lescot, Stefan Liberski, Gustavo Miranda, Elodie Moreau, Mohamed Ouachen, Lise Roy, Denyse Schwab. Or.: Belgio, Francia, Canada 2009. Dur.: 100'
Frontale con coppia su panchina. Padre e figlio, nonno e nipote, su un
divano, su un letto. Istantanee familiari da Simon Konianski , secondo
lungometraggio del trentacinquenne belga Micha Wald. Film in cui ci si
può amorevolmente, dignitosamente, festosamente perdere. Sia con sinossi
breve: giovane uomo perde il padre e parte verso l'est Europa assieme
al figlioletto. Sia con sinossi lunga: Bruxelles, oggi, Simon, separato
dalla bella moglie, torna a vivere col padre Ernest, ex deportato ebreo,
e col figlioletto Hadrien, fino alla morte improvvisa dell'anziano che
costringerà figlio e nipote a trasportare la salma in auto in Ucraina.
Ricordandoci che in Simon Konianski l'atmosfera è dissacrante: rispetto
alla morte, rispetto all'ebraismo di supporto e riporto. Il conflitto,
tanto per intenderci, che si sviluppa è, almeno per mezz'ora, di
malcelata ribellione di Simon (Jonathan Zaccai) nei confronti dei luoghi
comuni che accompagnano la tradizione ebraica, rappresentati
dall'arcigno papino (interpretato dallo one man show franco ebraico
Popeck). Ironiche frecciate verso l'avarizia paterna che ricicla le
bustine di tè, comiche pistolettate sulla circoncisione,
cannoneggiamenti slapstick quando davanti al tg scoppia un "boicotta
Israele, pro Gaza". Apriti cielo. Rito di passaggio, trasformazione
della memoria. Simon anagraficamente e culturalmente fronteggia padre e
parenti attorno ad una tavolata facendosi rincorrere forchetta e
coltello a mo' di pugnale dallo zio incartapecorito che gli urla
"nazista". Sequenza illuminante ( ogni cosa è illuminata ) per
squarciare il velo sottile di un presunto nouveau realisme a favore di
un umorismo irriverente a tratti grottesco. Così il classico on the road
post mortem, countryside ridanciano con piume d'oca svolazzanti, serve
per una riconciliazione laica del protagonista rispetto ad un'invadente e
rigida tradizione familiare. Più importante è ciò che accade in
itinere, rispetto alla meta/sepoltura. Visivamente lo spazio si apre e
senza ridondanti barocchismi benigniani si sfiora l'architettura e la
simbologia del "campo di concentramento". La fisionomia della verità
storica passa attraverso il filtro interpretativo di un regista
trentacinquenne con un alter ego scenico dagli occhialini alleniani
(Woody Allen poi non c'entra più nulla) spaccati e riscocciati di
continuo. Conta il silenzio, mirabile, quando serve, sinuoso; nuove
pause; nuove rielaborazioni eticamente rispettose del passato. Vedi il
bordone musicale che mescola Louis Prima, Nino Ferrer, Alan Sorrenti,
gli Ugly Duckling. O la felpa con stampato Bagdad. Rispettosamente
scorrettissima. (Davide Turrini, Liberazione, 9 aprile 2010)
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