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Con Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge
Dale, Nicole Beharie, Hannah Ware. Durata 99 min. - Gran Bretagna,
2011
Brandon
ha un problema di dipendenza dal sesso che gli impedisce di condurre
una relazione sentimentale sana e lo imprigiona in una spirale di
varie altre dipendenze. Nulla traspare all’esterno: Brandon ha un
appartamento elegante, un buon lavoro ed è un uomo affascinante che
non ha difficoltà a piacere alle donne. Al suo interno, però, è un
inferno di pulsioni compulsive. Va ancora peggio alla sorella Sissy,
bella e sexy, ma più giovane e fragile, la quale passa da una
dipendenza affettiva ad un’altra ed è sempre più incapace di
badare a se stessa o di controllarsi. Dopo aver colpito
indelebilmente gli occhi di chi ha visto il suo primo film, Hunger,
colpevolmente non distribuito in Italia, il videoartista britannico
Steve McQueen richiama con sé Michael Fassbender come protagonista
di Shame,
un film che è altrettanto politico, nelle intenzioni, per quanto non
lo sia esplicitamente nel soggetto (com’era invece per la vicenda
di Bobby Sands). Alla prigionia del carcere, dove l’uomo è
privato di tutto, si sostituisce qui una trappola mentale altrettanto
incatenante e umiliante, favorita paradossalmente dalla libertà di
potersi comprare tutto e subito: una escort, una stanza d’albergo o
un film. È l’altra faccia della società “on demand” quella
che McQueen racconta in questo dramma privatissimo solo
all’apparenza, venato di una tristezza senza freni. La nudità di
Fassbender, che apre il film, è soprattutto una condizione figurata
e quando, man mano che il minutaggio avanza, l’interpretazione
dell’angoscia si fa più dichiarata e arrivano le lacrime e le
contorsioni, si ha quasi l’impressione che non aggiungano molto ma
diano solo più senso a quelle prime sequenze, che già contenevano
tutto. Shame
conferma la grande capacità di McQueen nella scelta delle
inquadrature, il suo lavoro singolare sul sonoro, la poetica
dell’accostamento di bellezza e brutalità, qui meno evidente ma
non meno presente. Ma un grande dono viene senza alcun dubbio al film
dal contributo di Carey Mulligan, che presta la sua bravura al
personaggio tragico di Sissy e al suo sogno senza fondamento di un
“brand new start”, di poter ricominciare da capo lì a New York
perché, come canta in una sequenza da brivido, “if I can make it
there I’ll make it anywhere”. Ma è vero soprattutto il
contrario.
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