Recensioni vincitrici sezione triennio |
edizione 2005 |
La mia Itaca – recensione di un film di Flavia Piccinni ![]() Andare al cinema è come salire su un treno italiano per un InterRail Europeo. Non sai quando e se riuscirai a partire. Non sai quando arriverai. E, soprattutto, non sai se ci riuscirai, ad arrivare. Il cinema italiano è proprio come un treno: in perenne ritardo, anche se arrivi puntualmente fuori ora per perderti i titoli iniziali e invece salti solo un po’ di pubblicità; spesso scontato; troppo spesso con troppe domande e troppe poche risposte. Sedersi sulla poltroncina, come nel vagone, è ammettere la superiorità e la disponibilità a farsi guidare dal regista-conduttore.E’ come dire: «Sono qui: ti ascolto». La delusione, come quando fai Firenze Roma con l’intercity per la centesima volta, è da mettere in conto. Ci sono sempre quei film che speri finiscano subito, giusto il tempo per chiudere gli occhi e riaprirli. Giusto il tempo per reclamare mentalmente i soldi del biglietto che nessuno ti darà mai indietro. Andare al cinema, in Italia, per guardare un film italiano è un rischio. Un rischio che pochi vogliono correre: only the braves. Andare al cinema, di questi tempi, è come mettere in conto che vedrai la faccia stanca di un’Accorsi che farebbe bene a darsi al cinema muto. Ascolterai battute di attori che recitano per autogratificarsi ed esercitano il mestiere come una declinazione impiegatizia. Vedrai le stesse scenografie e gli stessi pensieri, gli stessi dubbi, le stesse sigarette che si spengono nervose sul pavimento. Con una scarpa nera che le calpesta e poi, le sorpassa.A volte, però, avviene il miracolo - e guardate bene che non stiamo parlando di quello di Winspeare. Avviene un miracolo vero, di quelli che ti fanno alzare dalla poltroncina. Spalancare gli occhi. Partecipare. E così dopo aver sopportato con cieca convinzione film religiosi, conversazioni melodrammatiche sulla data di scadenza del latte e ipotetiche variazioni della fuga con un pacchetto di sigarette in mano, ecco intravedere qualcosa che non è la solita commedia di sesso e tradimenti. Stiamo parlando di quello che è di Sorrentino. Di Servillo. Della Magnani, Olivia. Stiamo parlando de Le conseguenze dell’amore. Dopo il Chianti fiorentino, con le sue case di mattoni scuri, dopo le campagne verdi laziali, cariche di rumori e pensieri, è come decidere di continuare. Di non fare il solito tratto intercity e di rischiare di prendersi una bella multa per arrivare a Napoli. E nel golfo casomai prendere un battello. Perdersi per il gusto di farlo. Perdersi come ti perdi quando vedi Titta sul tapis roulant che avanza. Vestito di grigio. Con i suoi grandi occhiali. Neri. E il bianco, delle pareti, degli ingranaggi. Il bianco, a contorno. La routine che gira, come il tapis. Otto anni che corrispondono alla morte: un napoletano in Svizzera. Un uomo, un personaggio antico, perduto. Uno a cui non importa di morire e che sta fermo, dritto, e rende fiero Sciascia perché esistono sì i mezz’uomini e gli ominicchi, ma ci sono pure gli uomini. Quelli veri. Quelli che si fanno immergere nel cemento per una valigetta di soldi di Cosa Nostra, regalata ad un baro. Per il gusto di farlo. Quelli che non parlano, come i quaquaraquà, perché è l’eloquenza dei gesti, quella che importa. Il silenzio del fumo. Del prendere la sigaretta. Metterla in bocca. Aspirare. Il silenzio di un segreto che vale perdersi, per una volta, nel cinema. E farsi condurre, per mano. Convinti che la meta sia vicina. Che il cinema abbia annientato la sua più grande difficoltà. Che sia riuscito a stabilire un contatto biunivoco fra spettatore e attore. Che non ci sia una pellicola proiettata su uno schermo, ma solo una storia. E delle persone che in quel momento non recitano, ma sono se stesse. Convinti che il memo di Titta, non sottovalutare le conseguenze dell’amore, sia anche sul nostro block notes. Scritto a penna, vicino ad un’immagine; la fotografia di un uomo che, sulle Alpi, lavora. In silenzio. (Primo classificato sezione triennio, Scrivere di Cinema 2005) Ray di Francesco Codato ![]() La costruzione di una storia credibile da affiancare alla credibilità leggendaria della sua musica. Un caos affascinante, una vita persa e riacciuffata, la storia di un giovane nero cieco nato nel sud razzista che, con la sua musica, rivoluzionò la musica stessa. Affrontare la vita di un uomo di successo, entrare nella profondità del suo animo, scovarne anche le debolezze e i traumi: questo è lo scopo principale del regista Taylor Hackford nel raccontare la storia di Ray Charles. C’è riuscito mescolando la forza della musica con la magia e l’incubo di un’esistenza segnata dal buio riuscendo a realizzare una pellicola che corre sulla lama del rasoio, senza mai cadere nel luogo comune, ma neppure senza rimanere freddo e distante dal personaggio. Hackford ha lavorato a lungo sul film, di cui lo stesso Ray Charles aveva letto ed approvato la sceneggiatura scritta per lui in braille, offrendo un prezioso beneplacito al progetto, tanto più che i fatti sono raccontati in un’autobiografia pubblicata dallo stesso musicista. Rispetto al libro, però, il film cerca la chiave di lettura emozionale dell’uomo-artista, trovandola nella morte di suo fratello, ma finendo per giustificarsi troppo facilmente sul senso di colpa non elaborato di questo lutto. Se la vita di un uomo è soltanto la somma di una serie di eventi, allora quella di Ray Charles può essere letta come una storia di alti e bassi personali sullo sfondo di una lunga carriera musicale costellata di successi. Ma è il caso di un uomo nella cui vita le battaglie, la sofferenza ed il desiderio di prevalsa si sono intrecciati fino a confondersi. Il film con continui salti temporali e flashback alternati in modo sapiente dal montaggio, segue in modo parallelo l’infanzia di Ray (lo stretto rapporto con la madre, la perdita del fratello, la malattia agli occhi) e l’evoluzione della sua carriera a partire dal viaggio in pullman verso Seattle, dove si procurerà il primo ingaggio. Da qui nascono i primi tour, le prime esperienze e oblii da divo. La sua crescita artistica ed economica viene raccontata attraverso una selezione di quaranta canzoni che danno la reale misura della fusione dell’uomo con la musica: a cominciare dalle prime incisioni nel piccolo studio del Atlantic Records, passando per le tantissime tournée, per finire con le incisioni per l’ABC-Paramount realizzate con l’orchestra. Un fiume di musica, una colonna sonora costruita sulle registrazioni dello stesso Ray Charles (che ha anche re-inciso le canzoni più vecchie), dalla quale si è proceduto alla sincronizzazione labiale con Jamie Foxx, lo splendido protagonista, che ha svolto un lavoro mirabile per assomigliare al personaggio, in tutte le sue movenze. Si avverte fin dal principio una gran cura per i particolari di costume e di ambientazione: gran merito allo scenografo Stephen Altman (Gosford Park), che ha dato veridicità ai luoghi costruiti, e al direttore della fotografia, Pawel Edelman (Il Pianista di Polanski), che sono riusciti, insieme ad Hackford, ad integrare le riprese del set in cui era ricostruita l’azione o dei luoghi originali (invecchiandole), con le riprese d’archivio, appositamente restaurate. Sui diversi livelli narrativi è inoltre stata studiata la parte fotografica: la biografia artistica di Ray è leggermente desaturata (anche per legare meglio con le immagini di repertorio), mentre gli incubi legati allo shock della morte del fratello e le visioni della madre hanno colori fortemente espressivi, iper realistici, per rappresentare il mondo dei ricordi di un cieco. Sarà che la vita di Charles è particolarmente adatta ad essere trasposta sullo schermo, ma il film riesce comunque a mettere in evidenza tutte le sfaccettature del personaggio, luci, il successo, la carica innovativa, la grandezza come entertainer, l’onestà dell’uomo che spesso sconfina nell’ingenuità, il successo con le donne, ed ombre, la droga, la fragilità, le paure dell’infanzia che continuano ad assillarlo, la disillusione per il tradimento delle persone più care, riuscendo a mantenersi perfettamente in equilibrio sul sottile confine che separa l’impulso di venerare un idolo ad emularlo e ad approvare. Ricordiamoci che anche Ray è un uomo. (Primo classificato sezione triennio, Scrivere di Cinema 2005) Star Wars Episodio III : La vendetta dei sith di Daniele Lampugnani ![]() Ed è qui che, con un volo incredibile tra astrocaccia e incrociatori stellari, la cinepresa digitale ci presenta i cavalieri jedi Anakin SkyWalker (Hayden Christensen) e Obi Wan Kenobi (Ewan McGregor) nel mezzo di una disperata missione di salvataggio atta a sottrarre il cancelliere Palpatine (Ian McDiarmid ), in realtà oscuro signore del Sith e machiavellico burattinaio della vicenda, dalla grinfie dell’asmatico generale Grievius, capo dei droidi separatisti. E’ la prima della lunga serie di battaglie e duelli combattuti a colpi di spada laser del film, che, dopo un attimo di respiro e di tenerezza, dedicato alla storia d’amore tra Padmè (Natalie Portman) e Anakin, fa subito intuire quanto questo capitolo sia diverso dai precedenti. L’universo in cui Lucas ci accompagna questa volta, non è più il posto solare e benigno dei precedenti (e alquanto criticati dai fan) due episodi: è un universo lacerato, crepuscolare, che sembra pronto a compiere l’ultimo grande respiro prima del balzo nell’oscurità, un po’ come Anakin, il protagonista indiscusso del film. Già, perché la storia del film è una sorta di nodo in cui si intrecciano la caduta della repubblica e di Anakin, e la nascita dell’impero e di Darth Vader (Lord Fener nel doppiaggio italiano). E così, nelle ultime battute del film, dopo due ore di emozioni e rivelazioni, sui fiumi di lava di Mustafar (l’Etna in versione rimasterizzata ) bruciano gli ultimi minuti della pellicola, mentre assistiamo all’attesissimo duello tra il maestro jedi Obi Wan e un Anakin ormai irriconoscibile e reso folle dal lato oscuro della forza. Il destino della repubblica, e dell’universo di guerre stellari, brucia, avvolto dalle fiamme, così come il corpo di Anakin, sconfitto e mutilato dal suo ex-maestro.Sono gli ultimi scampi di luce, seppure violenta e distruttiva, prima che il jedi caduto venga salvato da Palpatine, ed entri nell’oscurità della maschera di Darth Vader. Gli ultimi fotogrammi della saga di guerre stellari regalano infine allo spettatore la spettacolare vista di un rosso tramonto su Tatooine, mentre Obi Wan consegna al futuro due nuove speranze: Luke e Leila. E’ la fine di una splendida saga intergenerazionale, ma è anche il ritorno agli antichi fasti di un regista (Gorge Lucas) capace di nuovo di scrivere memorabili dialoghi ("Così muore la libertà, sotto scroscianti applausi" dice Padmè mentre assiste alla fondazione dell’impero) e soprattutto di dirigere e assemblare un film che riesce nella titanica impresa di fondere insieme le due trilogie,aiutato anche da dei validissimi attori (Anakin-Darth Vader è interpretato da un Hayden in splendida forma, Ewan McGregor incarna un Obi Wan che si ricongiunge perfettamente, nello spirito e nella forma, ad Alec Guinnes, l’Obi Wan della vecchia trilogia, e la Portman riesce, nonostante una sceneggiatura che non approfondisce molto il suo personaggio, a donare umanità e sentimenti a Padmè). Ad assisterlo in quest’ultima impresa anche l’indispensabile aiuto della Light & Magic, la società specializzata in effetti speciali fondata dallo stesso Lucas, che crea mondi e paesaggi che sono, al pari dei personaggi, protagonisti di questa mitica epopea, e le musiche di John Williams, il geniale compositore newyorkese che per l’occasione riarrangia il Tema della Forza e lo sovrappone alla Marcia Imperiale (Vero e proprio leitmotiv di Darth Vader) durante lo scontro decisivo del film, e che accompagna e commenta ogni scena della pellicola con straordinaria abilità compositiva. E tuttavia La vendetta dei Sith non è solo un bel film corredato da tonnellate di effetti speciali e musiche epiche (così come non lo è tutta la saga) ma è anche un’accorta e attuale riflessione sulla sorte incerta della libertà ogni qual volta vi sia una svolta di governo in senso autoritario e una visione della realtà senza sfumature ("Solo i sith ragionano per assoluti" dice Obi Wan a Anakin, che non vedendolo più come amico, lo considera nemico) e un tormentato viaggio nei recessi più oscuri e malvagi dell’animo umano (con un Anakin-Darth Vader tormentato e lacerato da un’insanabile conflitto interiore) , un viaggio in cui tuttavia Lucas ci lascia mostrandoci un raggio di luce, la nascita di Luke e Leila, e che sappiamo concludersi alla fine dell’esalogia con la redenzione di Darth Vader. La vendetta dei Sith si configura perciò come parabola lucasiana su temi senza tempo come l’amicizia (Il rapporto tra Obi Wan e Anakin), l’amore (Padmè) l’odio (la nascita di Darth Vader) e sulla speranza fondamentale della redenzione e del trionfo del bene sul male. Quest ultimo film di Lucas è in definitiva un’opera perfetta e coesa, ma soprattutto una straordinaria magia che ci riporta in quell’universo "Lontano lontano" dove tutto era iniziato, 28 anni fa, con l’ormai leggendario Darth Vader che irrompeva nell’astronave della principessa Leila, emozionando e facendo sognare un’intera generazione, e molte a seguire. Ora il cerchio è completo. (Terzo classificato sezione triennio, Scrivere di Cinema 2005) |